jude chiude i battenti.

Mi sembra uno di quegli status su facebook in cui si dice che si elimina il contatto facebook perché così colì.
Io chiudo definitivamente con questa jude qui perché è già da tantissimo che non lo sono più, anche se molti di voi miei amici continuate ad avere il mio numero salvato in rubrica come “jude”, lo so, l’ho visto, mi fa molto incazzare. Mi piace invece quando continuate a chiamarmi “juji” o “juju”, mi fa sentire un guerriero giapponese dal cuore tenero.
Chiudo perché non mi va più di scrivere così pubblicamente di me e delle mie infanzie, dei miei dolori, delle mie riconciliazioni. Ne hanno tutti abbastanza, io per prima.
Ci sono tantissime cose piccoline che stanno cambiando dentro di me, molte mi fanno paura, c’hanno delle lame appuntite al posto dei denti e mordono mordono di continuo dove capita; le cose mie rimaste sono sempre la maggioranza, ma si lasciano facilmente addomesticare, sono democratiche, non hanno eretto nessun sistema immunitario per sconfiggerle, si affidano alla parola, agli accordi, credono ancora che esista la diplomazia, e nel frattempo soccombono come in uno stato totalitario.
Sicché io pure mi adeguo, e invece di lasciar andare, di lasciare che il tempo mi spieghi queste cose, mi fermo rifletto e cerco di comprenderle da me.
Questo impone che io lasci andare tutto il resto, non ho molto spazio.
Allora mi pare giusto cominciare da qui, dopo cinque anni.
CIAO
non ho nient’altro da dire

Di mare e di passate stagioni, cap. V: mancato ritorno.

La chiameremo Assuntina.

Nell’estate del 2012 io e lei eravamo una strana coppia, la gente ci guardava. Era difficile pure chiedere di lei la mattina alla mamma, quella non si spiegava com’è che avessi così tanto interesse a passare il tempo con una bambina di sette anni. Ma io le portavo la frutta i libri i fiori le caramelle i pennarelli i fogli e i soldi, quindi non faceva domande.
Casa mia era vicino casa sua, casa mia che adesso non è più casa mia nei fatti ma continua ad esserlo per me. A volte lei veniva fuori casa mia, ci divideva un cancello e chiamava, come i gatti. Aveva la carnagione scurissima, i capelli scurissimi, gli occhi scurissimi, i vestiti e la pelle sempre un po’ macchiati di non si sa bene cosa, forse della strada, dello smog, dell’asfalto, del marciapiedi. Ricordo che mia mamma mi intimava di starle lontana, ché c’aveva le pulci. Le mamme, a volte, eh?

Un giorno me ne andai senza dirle niente. Non dissi niente nemmeno alla mia casa, presi due valigie solo due e me ne andai per mesi, a studiare lontano, me ne dovevo andare, l’asfalto è fango, si attaccano i piedi, dicevo, l’aria opprime, mi sto ammalando, che cagacazzi. Quando tornai casa mia era lontana due quartieri dalla casa in cui ero ospite. Silenzio, buio notte dormire.

Di lei non ho saputo più nulla, poi l’anno scorso sono tornata a miagolare alla sua porta e un vecchietto che abita lì vicino mi ha detto che mò si mette la minigonna, Assuntina, ma io non gli credo. ‘Sti vecchi, non sai mai cosa ti contano. Sono stata ad aspettare ore fuori casa sua, zampe una sopra l’altra. Proprio come i gatti sono brava ad aspettare.
A un certo punto la proprietaria di casa sua si affaccia al balcone e mi chiede:
Sei la maestra?
Come, scusi?
Sei la maestra di Assuntina?
No, sono un’amica.
Ma quanti anni hai?
23.
Allora sei la maestra.
Ok, sono la maestra. Quando torna Assuntina?
Non lo so, si fa notte di solito.
Chiude la finestra, mi spia dalle tendine.
Il vecchietto di prima mi ha detto che si erano arricchiti in un modo che non sto a dire, per questo vedevo le inferriate alla porta-finestra, per questo le pareti erano colorate di estate calda e rovente. Gli credo.

Assuntina l’avevo conosciuta perché un giorno mi aveva chiesto degli spiccioli fuori alla farmacia. Al mio quasi solito “mi dispiace, non ho niente” lei:
E una gomma almeno ce l’hai?
Alla gomma si era attaccata a parlare e non si era smossa per mezz’ora. Mi aveva seguita fino a casa e mi aveva inondata di domande. Che fai, che studi, quanti anni hai, come ti chiami, adesso siamo amiche, mi piace leggere, ce l’hai un’altra gomma.
Poi è seguito uno scambio di battute che a volerlo ripetere non ha lo stesso effetto per niente, quindi non lo ripeto, ma era grande, di un’ironia inconsapevole, unica, presi subito a volerle bene.
Eravamo molto diverse, alla sua età ero una bambina timidissima e incapace di stringere amicizia, lei invece era un sole e non faceva che parlare di continuo e con tutti. Tutte e due però ci sentivamo particolarmente legate a una famiglia a cui non sentivamo di appartenere realmente, perché parlavamo un’altra lingua. E questa cosa si vedeva a distanza quando ci vedevamo da una parte all’altra della strada e ci correvamo incontro, scodinzolando, non c’era bisogno di spiegarla.

Settimana scorsa vado al pronto soccorso, mio fratello ha avuto un incidente. Non subito, dopo mangiato. E questo particolare è assai importante, non subito, badate, non subito, ma dopo mangiato, ok, dopo mangiato, se fossimo andati subito non sarebbe stato dopo mangiato. Entriamo, dà i dati, guardo il tizio che prende i dati, ci chiede di accomodarci, passa una barrella, ci oscura la visuale, vediamo due posti liberi, lui si siede, io in un angolo alzata, schiena contro il muro, devo guardare tutto, io. Davanti a me una ragazza abbastanza grassa, poi noto una bambina. La bambina stava in mezzo ai genitori di Assuntina. La bambina era uguale ad Assuntina tre anni fa, stessa età di Assuntina tre anni fa, ma non era Assuntina.
Ha un vestitino da mare rosa che le scende di continuo di dosso, se lo tira con le manine sopra i zizzotti che nemmeno c’ha, muove la testa a destra e sinistra e canticchia, i capelli scurissimi come quelli di Assuntina. La mamma scruta tutti con gli occhi da pazza che si ritrova. Il padre uguale a tre anni fa adesso gioca con un cellulare che è grande quanto un citofono. Li guardo con la bocca aperta. La bambina mi nota, mette da parte il cellulare e una di fronte all’altra ci spariamo le linguacce. La mamma che ha sempre gli occhi da pazza dietro dei pezzi enormi di vetro mi fissa, forse ricorda qualcosa, poi si distrae e pensa ad altro.
Il telefono del papà squilla.
È Assuntina, fa.
Eccola. Parlano, ho gli occhi sbarrati come se fossero orecchie, ma lui urla al telefono, si sente tutto, si sente mentre dice:
TI RACCOMANDO NIENTE PATATINE O SI NO VERIMM.
Io zitta, pensavo ai mille modi in cui potevo interrompere i loro giochi al cellulare, le loro urlate al telefono, dire chi ero vi ricordate di me? Chiedere di Assuntina, farmela passare al telefono. Avrei voluto dirle che mi dispiace di essermene andata senza dirle niente, che ormai non passa bambina per strada che non penso a lei, al modo schietto con cui mi parlava, al marciapiedi che si ritrovava addosso, alle unghie sporche che vedevo sulle sue mani che mi stringevano le braccia quando mi trascinava da una parte all’altra, ai giochi suoi inventati, alla sua testolina intelligente, al modo in cui si esprimeva.
Dirle, ad esempio, avrei voluto dirle che è ciò che più somiglia a casa mia che non so spiegarglielo, non so spiegarlo, dirle che è teneramente casa mia.
Invece no.
Non ho detto niente.

KARST

Nientedimeno tutti i miei racconti che finiscono male finiscono d’estate. Una condizione cupa dell’esistenza che coincide con la mia nascita. Ogni anno al compleanno ti dicono che sono gli anni più belli e tu a tua volta lo dici a qualcun altro. Questi sono gli anni più belli. Poi magari sono i trenta e tu nemmeno li hai ancora vissuti, ma dicono che sono i più belli. La terza età, poi, non ne parliamo.

Questi miei, invece, come gli altri che c’erano e che devono venire, sono gli anni che vengono d’estate e questa è di sicuro l’estate più calda che abbia mai vissuto, e come moscerini gli anni si appiccicano addosso. Umidi, caldi, sotto al sole, coi cappelli di paglia, le creme solari, i piedi ustionati, i nasi attappati sott’acqua, le orecchie sopra, ma soprattutto sempre in cerca di lenzuola fresche, questi anni.

Questi ventitré anni ho imparato cose. Tipo che gli amici muoiono, ma già l’ho detto, e che quindi i ricordi cambiano per via del dolore; che quello che avrei voluto fare tanto probabilmente non è quello che vorrei davvero fare, o comunque non c’ho la stoffa, perché ci vuole carattere, determinazione, bisogna essere dei leader, combattenti, e io ho smesso di affannarmi tanto a cercare di essere altro. Ho accettato, infatti, che non posso cambiare, posso solo migliorare, ciò significa che qualcosa di buono c’è e bisogna far leva su quello. Ho imparato, vediamo, che la vita è una gara di motocross, che se cadi stai nel fango e l’armatura attutisce ma non ti separa dalla puzza e se fai i salti sono sempre pirotecnici e un po’ comunque ti sporchi.

E ho imparato che ci sono tre cose che fanno paura ai costruttori: la prima è la sabbia, la seconda è la falla e la terza è il karst, una malattia della terra.

Ma non c’è storia: ventiquattro anni a costruirmi e ogni volta l’umidità si appiccica, le infiltrazioni mi spaccano e io cado a pezzi.

Il signor Emilio

C’è un personaggio che ho lasciato chiuso in una stanza. Mi bussa di tanto in tanto, trema co’ sto caldo, bussa alla parete di vetro che ci separa e mi dice: allò?, che si fa?
C’ha il cappelletto, a volte no, i capelli grigi e la barba incolta. Dietro, la tappezzeria non prende colore, passa dal grigio al rosso pompeiano al marrone chiaro a fantasie antiche. Ce l’ho di fronte, sguardo dritto su di me, si gratta dietro la nuca e mi aspetta. Una figura piuttosto incerta di una donna bionda vestita di nero si aggira alle mie spalle, un’ombra che appare davanti ai fari sparsi per la stanza e scompare di nuovo nell’oscurità tutt’intorno, ha la penna puntata su un foglio bianco davanti a sé e le labbra pronunciate. Mi aspetta pure lei. Io non so che scrivere, o comunque lo so, ma aspetto anch’io non so cosa. L’ispirazione? La costanza? Il padreterno?
Tra tutti i personaggi con lui, l’ometto, ho un rapporto particolare, non a caso ritorna in altre storie, sotto altre spoglie, con un’altra luce, pure sempre chiuso in una stanza, coi muri scrostati, o in un negozio dalle alte finestre verdi. Derelitto, narici larghe, i puntini della barba gli fanno prurito. Claudia dammi un motivo, sembra dirmi, oppure assolvimi; dammi una scusa per spiegare perché ho fatto quello che ho fatto, redimimi, dì loro che anch’io sono meritevole di compassione, o perlomeno provaci, pure se non riesci a giustificarmi almeno fammi parlare, ci penso io.

Io mi taglio le unghie, respiro piano, mi lamento della mia sedentarietà, girovago nei miei pensieri, perdo/prendo tempo, chiudo gli occhi e lo guardo di tanto in tanto, non mi spreco nemmeno a dirgli: Aspetta; solo lo guardo, mi viene da pensare: ma che vuoi da me? Perché mai non mi ritrovo con aspirazioni diverse? Perché non mi sono mai concentrata su qualcosa di pratico? Perché non mi sono rimessa alle mie capacità, seppur poche, nonostante gli imperativi di mia madre, le sue inquietudini, i suoi sforzi di portarmi da un’altra parte con un’altra testa? Sempre lì a girare, in tondo, mai con l’impulso di scrivere la mia vita una volta tanto, mai con l’iniziativa di viverla, sempre a crogiolarmi con le gambe al petto, a guardare fuori, a pensare alle vite degli altri. E’ frustrante. Ho lavorato anni per avere le nocche e le vene pulsanti. Una volta ottenutele, ho smesso di affannarmi. Una vita così e poi mi fermo davanti a un ometto con la barba ispida perché non riesco a decidere il colore della carta parati, e se di carta parati si tratta. Lo guardo e non riesco a identificarlo, non mi riesce di accontentarlo, mi sento intenerita dalla sua volontà e allo stesso tempo impaurita per i miei quasi 24 anni e quelli che ancora devono venire che passerò invariabilmente lì davanti a lui, o a qualcun altro, a cercare di rendere esattamente quello che lui vuole essere, per quanto tempo ancora? Dietro chi sto correndo? E chi voglio redimere? Con chi ho a che fare? Chi mi chiede la vita? E se lui avesse più dignità di vita della mia, come posso voltargli le spalle?

Ma soprattutto: chi mi credo di essere?

Parlo di dolore.

È passata una settimana.
Di lui continuo a ricordarmi sempre le stesse cose, in modo vivido, come se non fossero passati degli anni:
il sorriso che faceva mentre parlava, nello stesso momento in cui parlava, e lo faceva sempre;
il piccolo inchino di lato con la testa e l’alzata di spalle, movimenti unisoni, quando s’imbarazzava o era timido, e lo era sempre;
lo zainetto verde pisello tenuto chiuso da una spilla;
la felpa a righe grosse blu e sottili rosa;
le mani da dinosauro;
i capelli sempre sfatti;
i suoi libri di poesie;
la maglietta dei CCCP;
la camicia arancione estiva;
quanto cazzo era alto e quanto imbarazzante abbracciarlo, da sotto, con le punte dei piedi e le braccia appese al collo;
i suoi mille denti;
quella volta in cui chiesi a B la locandina di quello lì che mi piaceva e suonava a Napoli e B mi mandò a fanculo e lui invece staccò la locandina da un palo, la arrotolò, se la portò a casa e il giorno dopo da me, in classe, col sorriso e i suoi mille denti e l’alzata di spalle e l’inchino di lato della testa;
le compilation che ci faceva;
i fumetti su di lui di Frà;
le volte che mi abbracciava e mi ringraziava quando lo chiamavo per nome, ero l’unica che lo chiamava per nome;
la sua voce rauca;
la prima volta che ci ho parlato, avevo delle fragole per B, le prese lui e mi sorrise;
tutti gli anni più belli, innocenti, ingenui, pieni di speranza della mia adolescenza.

Adesso ho il ricordo di lui e della locandina che mi porta fino in classe, io che lo ringrazio chiamandolo per nome, lui che mi dice: Bionda!, almeno tu mi chiami per nome!, con la sua voce rauca e si abbassa per abbracciarmi e io sulle punte e poi si butta giù. Fa così. Parla, poi come se niente fosse va ad una finestra e si butta giù.

È passata una settimana ma non abbiamo smesso di piangere. È morto e gli anni più belli si sono rivestiti di dolore, come un foglio di cellophane, adagio, sulle nostre teste.
Viviamo in modo un po’ strano, abbiamo scoperto che non solo i nonni, i papà, i cani muoiono. Pure gli amici, gli ex amici, i compagni di liceo, e ci lasciano vuoti anche loro. Pure loro si buttano giù dalla finestra. Prendono e se ne vanno. Tutte le poesie che leggeva, i sorrisi mentre parlava, sono caduti giù dalla finestra, si sono buttati con lui. Così come tutti i nostri anni più belli passati a scambiarci la musica e le poesie e le confidenze e tutte le paure.
Continuiamo a vivere, ma ogni tanto le cose ci sembrano troppo indiscrete. La gente che ride troppo forte, noi che ridiamo troppo forte, il fatto stesso che continuiamo a provare emozioni belle, a vivere, a camminare, ci fa sentire in difetto. Non dovremmo, e allo stesso tempo sì che dovremmo. Ci sdegniamo per le nostre reazioni di vita, poi però ci giustifichiamo, ché alla fine noi stiamo continuando a vivere, nonostante tutti quegli anni si siano buttati giù con lui, è inevitabile
ma inaccettabile.

10 min

Ogni momento penso a quando scriverò che cosa come a chi
La mia pena frustrazione eterna felicità, finzione?
Ci penso sempre, continuamente
A come si trasforma quella cosa che ho visto se tento di spiegarla a parole mie
Con quali colori, gli stessi?
Una cosa continua irrefrenabile che mi fa vivere le cose a metà – forse tre quarti va’
Comunque mai compiuta
Sempre in movimento, sempre immatura, puzza,
Puzza di latte
E mal di stomaco
E notti a occhi semiaperti
Boh, i pianti
Gli scarabocchi, le mille balene, i denti e i profili fessi sugli angoli
I chiaroscuri a caso
Le virgole che mi cambiano
Quelle che mancano – soprattutto
Tutte le parole pensate e mai finite
I groppi – in più cavità, pure nei tubi del sangue
Le mille idee mai pronte, sempre lì a fermentare
Il contentino dei sogni

Poi arriva il momento buono per scrivere e mi caco il cazzo.

(Non so dove lessi che “cago” con la “g” la dicono tipo i milanesi, mentre “caco” con la “c” tutti gli altri: i cafoni. Io.

Rettifico: Ah, ma non è vero proprio! è andata così: https://www.youtube.com/watch?v=lsXf1UcOx_Y
però mi piace restare della mia opinione dei milanesi e dei cafoni.)

Di tutte le morti in assoluto la peggiore.

Mi immagino tre tipi di morte che potrebbero assalirmi.

La prima ha a che fare con qualche malattia letale. Di quelle che ho visto coi miei occhi o col mio sangue portarsi via qualcuno. Quasi l’aspetto. Ogni tanto, anche piuttosto spesso, entro dentro il mio sterno e attraverso la gabbia toracica fanno eco le mie parole: quando arrivi? fino alle orecchie. Ed è per questo che quando ho qualche dolore sospetto subito credo sia sintomo di morte imminente. Lo penso anche con rassegnazione, come se così dovesse essere, non ci posso fare niente, è la vita, e la morte è un segnale della vita. Mi dispiace un po’, ma nemmeno troppo perché a una malata terminale si perdona tutto e questa è una dichiarazione pesante e coraggiosa secondo me, da parte mia, egoista soprattutto, ma l’ho ammessa per tutti una buona volta.

La seconda ha a che fare con un un polipo gigante che mi afferra coi suoi tentacoli mentre perlustro l’oceano in cerca di balene e mi porta giù; la pressione dell’acqua e dei tentacoli mi fa implodere gli organi. Questa è una morte schifosa. Tutto perché ho la fissa di vedere le balene e lo farei a discapito del pericolo e poi perché un giorno, in TV, hanno detto come ci si può salvare dall’attacco di un polipo gigante e io non me lo ricordo. Non me lo ricordo proprio. Forse stimolare le ventose? E se non fosse quello? Però sarebbe una morte giusta. Nell’oceano.

Da un po’ invece mi immagino che possa avvenire una catastrofe da un momento all’altro. E di conseguenza la mia morte avverrebbe in tali circostanze, ma precisamente non so come. È già da un paio d’anni che sento un’enorme pesantezza, addosso, come se il cielo fosse calato di qualche metro e le acque si fossero innalzate così i miei piedi si attaccano a terra come se ci fosse fango soltanto. Le piante hanno un altro colore.
Quando manca l’acqua a casa penso subito: ecco là, ci siamo, oggi l’acqua domani l’aria.

A volte, svegliandomi, ho paura che in casa sia entrato qualcuno, uno sconosciuto dal volto coperto e le mani ossute, o dei soldati che mi intimano di uscire, i fucili in mano. È una cosa che credo non potrebbe mai accadere ma a volte ho la sensazione che faccia parte della mia realtà.

E vivo come se stessi in guerra, e raziono il cibo e l’acqua e ti chiamo più spesso.

Di mare e di passate stagioni, cap. IV: Gabbiani.

“Che razza d’uccello è? […] dove abitano? Mai visto neanche uno, prima di lui.”
“Lui dice” rispose Parruccone, guardando dritto Pungitopo, “dice che non è molto lontano da qui, dove la terra finisce e non ce n’è più.”
“Be’, s’intende che finisca a un certo punto. E cosa c’è, più oltre?
“Acqua.”
“Un fiume, vuoi dire?”
“No,” rispose Parruccone “non un fiume. Lui dice che c’è una gran distesa d’acqua, che continua e continua. Tanto che non si vede l’altra sponda. Anzi non c’è. O meglio, sì che c’è, ché lui c’è stato, sull’altra riva. Insomma non lo so. Devo ammettere che non ho capito ben bene tutto.”
“T’ha raccontato dunque che è volato fuori dal mondo e poi c’è ritornato? Non sarà vero!”
“Non lo so,” disse Parruccone “però sono certo che non racconta bugie. Insomma, c’è quest’acqua che si muove di continuo e che batte, si frange contro la terra. E quando lui non sente quel rumore, ce n’ha la nostalgia. Ecco, così si chiama, lui: Kehaar. è il rumore che fa l’acqua che si rompe.”

La collina dei conigli, Richard Adams.

Ieri un gabbiano stava sul palazzo di fronte e chiamava. Non so chi, chiamava, insistentemente. Sarà il delirio della febbre, ma a un certo punto ho creduto che ce l’avesse con me.

Di mare e di passate stagioni, cap. III: Sull’immaterialità del fare le addizioni se il risultato è sempre me meno te.

Dico: che batosta quando non ci sei, faccio uno più uno uguale me senza te che non ci sei. Mi butto in letture che tu definisci: particolari. Ma preferirei passeggiare con te di notte a Roma e spostare i bicchieri dei tavolini dei bar, mi dici che dovrei romperli piuttosto che spostarli, se proprio devo, ma io no, li voglio solo spostare, che problemi hai? C’ho il naso spiaccicato contro la vetrina, le guance arrossate, abbiamo bevuto un po’, volevo fare la grande e ho chiesto un old fashioned come quello di mad men. Praticamente Roma mi piace solo perché ci cammini tu, dentro. Ci cammini storto, fa lo stesso, ma mi manca guardare le strade coi sanpietrini le luci gialle con te dentro. Proprio non saprei come viverci, in quella città, mi sembrano dei pazzi che non sanno di essere pazzi, tutti quanti. Si sono convinti di non so cosa e perseverano. Immobilizzati in una realtà che non esiste da un pezzo, discorsi che si impappinano su teorie superate, e il sole gira intorno alla terra, cose così, andate, vite confutate da migliaia di anni che ancora stentano ad adattarsi. Ma chi lo dice poi che sbagliano, dopotutto chi non è imprigionato in inutili retoriche scagli… Ti ho pensato ieri quando mi sono ritrovata – e non sto a spiegare perché come – nel mezzo di una lezione di non ho capito bene quale materia, in una classe di liceo di Scampia. Sulla differenza tra materialità e immaterialità. Dapprima ho pensato si stesse parlando di studio di materiali e della loro duttilità (?, è una cosa di cui ho sentito parlare, ma non sono sicura che esista). Invece poi nello schema erano elencate: Storia, Matematica, Religione, La nonna. Cose così, nemmeno io sapevo rispondere, e a dire il vero a fine lezione ero anche più disorientata di prima. Uscita di lì ho capito, per esempio, che la Matematica, la Storia e La Nonna fanno parte della Materialità, mentre la Religione no. E qui io avrei tantissimo da ridire, ma ovviamente si stava parlando a dei ragazzi di tredici anni – uno era così carino e piccolino che sembrava un pulcino, mi entrava in una mano, c’aveva pure i denti che spuntavano e restavano sospesi di fuori di tanto in tanto quando sorrideva e tentava di rimetterli dentro la bocca, “dannati dentini!”, sembrava pensare, e si toccava il musetto. Era difficilissimo tenere dei ragazzini di quell’età che nemmeno portavano i fogli per scrivere, pareva il film di Cantet*. Il professore tentava di far loro capire dove inserire la realtà virtuale, e pare che è da un po’ che ci sta provando. La matematica costruisce le reti ferroviarie, quindi è materiale, però costruisce anche le reti del web, e quello non è materiale. Che mal di testa. E io e te dove stiamo? Dove ci mettiamo? Sì, spostiamo questo discorso ostico sul “materiale amoroso”, definiamoci. Sono passati 10 anni dal mio primo liceo. Non ho mai avuto bisogno di una lezione circa la materialità o immaterialità della realtà – ma per molti versi avrei dovuto esigerla – eppure eccomi qui a chiedermi in che categoria mettere il ricordo di noi due che spostiamo i bicchieri sui tavolini del bar all’aperto.

Ma una cosa è certa: che sia nell’immaterialità o nella materialità di questa realtà, io stento a viverci senza di te. Faccio le cose però manca sempre un fatto materiale che sei tu. Se dobbiamo vivere nell’immaterialità e nella materialità allo stesso tempo dobbiamo stare assieme, non ci stanno cazzi. Sei la Matematica che mi fa fare i binari del treno e allo stesso tempo sei la Matematica che crea i binari di una rete di cose non catalogabili che vanno dai sogni ai ricordi ai sentimenti. Detto così proprio: manchi.

*Entre les murs (La classe).

Di mare e di passate stagioni, cap. II: Le domeniche di seppia.

Vorrei dieci domeniche iniziate da tutt’altra parte nel tempo tutti insieme e al sole, piuttosto che queste vissute al contrario, nel letto e senza fretta. Preferirei anche delle tiepide mattine passate fuori al balcone a cinguettare e ad aspettare il pranzo. Anche in pigiama, ma tutti insieme. Poi mettiamoci chi le gonne, chi i pantaloni dritti e incontriamoci al parco o in chiesa, ma comunque aggreghiamoci e facciamo un coro. Andiamo a casa di quello lì, dopo pranzo, ci andiamo con la macchina di coso ché c’ha lo stereo. Quando torneremo a casa lo faremo sui pattini urlando ai passanti di farsi da parte, ché arrivano Noi. Tipo così mi immagino le domeniche immortalate dei miei genitori. Proprio così, color seppia e tutti ben vestiti. Gli occhialoni, le permanenti, i forni arrugginiti e le mantesine a quadri, le partite di calcio e le auto a forma di auto. Quando li rivedo mi immagino nelle loro domeniche seduta in un angolo a guardarli fumare. Faceva sicuramente freddo ma mai quanto adesso, e le estati erano tutte colorate. Poi tra quei momenti arrivo pure io finalmente, il caschetto biondo, seduta al solito posto fuori al balcone. Sempre gli occhi abbassati a fissare le lettere sui fogli. Diciamo che allora era ancora tutto seppia. Mi stavano dando massimo due anni e poi ogni cosa avrebbe preso il suo colore reale. Chi si immaginava quante cose mi sarebbero cadute addosso, a saperlo invece di fissare le lettere mi sarei riparata la testa. Ma nemmeno sto a dire che si stava meglio perché io non stavo meglio, sto meglio adesso, di molto. Con tutto che è grigio dov’è grigio e non assolato dal rullino e le domeniche le passo a letto. Sto meglio mò che l’anno scorso e l’anno prima ancora e quello ancora prima fino ad arrivare fuori a quel balcone a fissare le lettere che ancora non sapevo interpretare.

È un sollievo sapere che le fotografie ritraggono solo giorni belli e meno male che non c’ero io dietro alla macchina, chissà che cosa avrei tenuto per sempre; invece prima c’era papà e tutto quello che riprendeva si colorava di seppia.